Frank Zappa, ovvero: Ecco uno spirito di cui sentiamo la mancanza…

Ogni tanto mi chiedo: “Chissà cosa direbbe Frank Zappa, se vedesse tutto questo”.

Già, Frank Zappa, un personaggio, prima ancora che un musicista… eppure è soprattutto come musicista che ha lasciato un segno nella storia. Figlio dell’America del dopoguerra, dei suoi sogni e dei suoi paradossi, nonché frutto ed esponente dell’anima ribelle e libertaria degli States, emersa tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, eppure anche personalità a sé stante, che non si può agevolmente incasellare in nessuna delle categorie conosciute.

Su Zappa è stato scritto moltissimo (del resto è stato prolifico e poliedrico, come artista), e devo dire che molte cose che si trovano in Rete sono di buona qualità [vedere la rassegna riportata in calce] – forse perché di uno come Zappa si occupano di solito solo persone che hanno qualcosa da dire; non è un soggetto adatto a “voli superficiali” o a commenti estemporanei e disinformati.

Non è riducibile a sterile “gossip”, né la sua musica si presta a fare da tappezzeria.

Il nonsense apparente di molti suoi pezzi era uno schermo che suggeriva, come in certi annunci: “Astenersi perditempo”.

Forse non gl’interessava essere amato senza cognizione di causa; preferiva, con i suoi atteggiamenti come con la sua musica, allontanare gli spiriti spenti e conformisti e rivolgersi soltanto a chi coglieva il succo delle provocazioni che lanciava.

Difficile, ad ogni modo, aggiungere ancora qualcosa che non sia stato già detto, intorno a Frank Zappa.

La musica contemporanea si può classificare in molti modi: possiamo distinguere, ad esempio, fra un’avanguardia europea e un’avanguardia americana; fra gli atonali e i tonali; fra la musica basata su partiture rigorosamente scritte e quella basata essenzialmente sull’improvvisazione; e così via.

La classificazione che personalmente m’interessa di più è quella che effettua una distinzione fra la musica che preserva la separazione (dei pubblici e dei “compiti”) tra “colto” ed “extra-colto” e quella che invece punta a rimescolare le carte (i generi, i pubblici, le barriere, gli stereotipi), superando quindi lo steccato che divide la pratica “alta”, “colta”, della musica, da quella apparentemente “bassa”, “popolare”, “facile”.

Un’altra classificazione che m’interessa è quella che traccia una linea di demarcazione fra coloro che intendono la musica come “veicolo per discorsi” che rinviano al mondo che c’è fuori e al di là della musica stessa e coloro che invece intendono la musica letteralmente come “play”, gioco che ha regole tutte proprie, e che quindi può anche “non significare nulla” tranne che se stesso.

La mia personale propensione va alla seconda opzione, in entrambi i tipi di classificazione: prediligo la musica che crea ponti fra “alto” e “basso”, fra “colto” ed “extra-colto”, e quella che, intendendosi soprattutto come “play” che non si assoggetta a “progetti intellettuali” (e non diventa quindi solo strumento e pretesto per altro), è capace di autoironia.

Ciò non vuol dire che l'”impegno” debba essere bandito in musica. E’ importante però che l’impegno non diventi veicolo di separazione fra il progetto e il pubblico; non deve essere perciò “ammaestramento” calato dall’alto, che tiene il pubblico a debita distanza e/o lo fa sentire inadeguato – come se il musicista fosse un nobile dell’ancien régime che fa di tutto per far sentire a disagio quei “plebei” del pubblico e ricordar loro chi è “più intelligente”.

Non mi ha mai attratto l’idea di musica che ha espresso, ad esempio, Theodor Adorno, che è opposta alla mia: Adorno, e tutti i seguaci dell’avanguardia “dura e pura” (entrata in crisi negli ultimi trent’anni, in realtà), hanno mostrato un certo disprezzo per i gusti del “volgo” e hanno ritenuto di dover indicare come compito della “vera musica” l’umiliazione dei gusti e delle aspettative del pubblico “di massa”, incolto, incompetente. Per loro, cercare di conquistare le platee “semplici” è più che un errore, è una specie di delitto; affinché ci sia “vera” musica, i semplici devono sentirsi a disagio.

Il culmine che l’arte musicale può esprimere – secondo il filone “adorniano” – è un dialogo fra “pochi eletti”: addetti ai lavori che si rivolgono ad altri addetti ai lavori; i profani devono percepirsi come estranei; se chinano il capo in adorazione di ciò che non arrivano a comprendere, li si può accettare, altrimenti se ne stiano a distanza.

Coloro che invece, nel Novecento, a differenza di Adorno e degli adepti della musica seriale, hanno tentato di abbattere le barriere fra musica “colta” ed “extra-colta”, si sono mossi in una direzione totalmente diversa. Non hanno negato il valore della musica colta, ma hanno ritenuto di dover trovare il modo per portarla all’attenzione del vasto pubblico, facendola dialogare con i linguaggi più familiari all’uditorio “popolare”, di massa.

Non si è trattato, in questo caso, di una vera scuola, ma di approcci differenti, che nascevano nel solco di percorsi (artistici e biografici) tra loro eterogenei, ma che convergevano nell’intenzione di fondo, ovvero quella di sbarazzarsi o di fare a meno delle barriere che idealmente separano “alto” e “basso”, musica “di pregio” e musica “leggera”.

Si possono citare diversi esempi in proposito; farò solo qualche nome, per ricordare come si tratti di autori davvero molto diversi fra loro: George Gershwin, Kurt Weill, Claude Bolling, Ennio Morricone, o ancora Léo Ferré, Roberto De Simone o Keith Emerson…

Tra tutti coloro che hanno tentato di far cadere la barriera fra “colto” ed “extra-colto” in musica, Frank Zappa è stato uno dei casi più importanti e sinceri. Davvero per lui quella barriera non esisteva o contava molto poco, e la sua stessa pratica di musicista lo attesta. Per lui non si è trattato di un impegno o di un tentativo sovrapposto alla sua attività corrente nel campo della composizione e dell’esecuzione musicale, ma del suo stesso modo di pensare e di operare.

Sembrava trovarsi perfettamente a suo agio tanto nell’eseguire rockeggianti assoli di chitarra elettrica quanto nel comporre complesse strutture col Synklavier; tanto nel cantare un pezzo che faceva finta di voler dare l’assalto alle hit parade della musica “pop” quanto nell’elaborare pezzi musicali per orchestra talmente densi di dettagli da mettere in difficoltà esecutori professionisti.

Spaziava pertanto dalla canzone “tonale” al brano strumentale atonale; era uno dei pochissimi musicisti rock che sapesse scrivere musica sul pentagramma senza bisogno di “aiutini”, e che sapesse quindi anche pianificare sulla carta i propri arrangiamenti, ma all’occorrenza sapeva destreggiarsi egregiamente in sessioni di improvvisazione.

D’altronde, come dimostrano diverse sue esternazioni e interviste, Zappa non aveva particolare fiducia nel “circo” della musica rock, che pure sembrava averlo “arruolato” come stella di prima grandezza, o meglio come fiore all’occhiello (benché spesso incompreso), né nel compassato Empireo della musica contemporanea “colta”, che – con alcune eccezioni – lo guardava dall’alto in basso, trattandolo alla stregua di un presuntuoso parvenu in cerca di titoli di nobiltà che gli consentissero di essere ammesso nell’Olimpo della Vera Musica.

E andavano in confusione, gli “dèi”, quando scoprivano che Zappa in realtà non era affatto interessato a diventare membro del loro “club esclusivo”; voleva soltanto mostrar loro che le barriere potevano anche cadere – e gli dèi ritrovarsi in prospettiva senza un Olimpo da presidiare.

Zappa sapeva all’occorrenza anche occuparsi di temi politici; ma lui la politica l’ha fatta soprattutto da musicista, nel senso che proprio il suo modo di concepire la musica sottintendeva una precisa “politica”.

Aveva in un certo senso scelto nella sua professione di evitare – per usare categorie politiche – tanto l’approccio paternalistico/elitario (a volte travestito da “progressismo illuminato”) quanto l’approccio populista, ovvero – per tradurre in musica – tanto la “torre d’avorio” delle avanguardie intellettualistiche (adorniane e simili) quanto l’adesione pedissequa alle mode ondivaghe e frivole della musica “extra-colta” (pop, rock, folk e quant’altro).

Non era e non aspirava ad essere né un maestro inavvicinabile (un Autore, guru del pentagramma) né un “divo del rock”; si sarebbe sentito fuori posto in entrambi i ruoli, come se indossasse una maschera.

Cercava di svegliare coscienze distratte, di accendere l’interesse verso l’immenso tesoro della musica in un uditorio che di questo tesoro conosceva soltanto una parte infinitesimale (e che non sospettava ci fosse tutto il resto…).

In fondo, da parte di uno spirito sarcastico del suo stampo, era una dimostrazione di fiducia nei confronti del pubblico: voleva renderlo partecipe del suo “gioco”, sapendo che dentro quelle teste apparentemente “ignoranti” sonnecchiava una scintilla di curiosità che poteva accendersi e compiere prodigi.

Si tratta quindi di un prezioso insegnamento politico, oltre che artistico, che mostra tra l’altro come si possa non essere populisti, senza per questo aderire ai luoghi comuni preferiti di quell’establishment “anti-populista” che in realtà diffida del pubblico dei cittadini “comuni”, come se fosse un branco di “selvaggi” e incivili da tenere a bada.

E torno così alla domanda iniziale: “Cosa direbbe Zappa, se potesse vedere tutto questo?”, ovvero se potesse constatare “come siamo messi” in questo frangente?

E’ chiaro che non ci può essere una risposta “esatta”; ma – ovviamente è la mia personale opinione – presumo che, facendo ricorso a tutto il suo sarcasmo, ci farebbe presente che stiamo sprecando le nostre energie per dedicarci con sovrabbondante animosità a una gara di esibizionismi retorici.

Ribadendo ciò che una volta, durante un concerto, fece notare – rispondendo ad alcune contestazioni – ci direbbe che probabilmente tendiamo a innamorarci della “divisa” che indossiamo; quasi tutti ne portiamo una, anche se ci sentiamo del tutto liberi e affrancati, e magari persino spregiudicati.

Ma lui è Frank Zappa e si può permettere queste “licenze artistiche”.


E ora, per chi vuole approfondire, una breve rassegna di letture interessanti reperibili nel Web sull’argomento “Frank Zappa”…

L’articolo Frank Zappa. Absolutely free di Massimo Marchini, su “Ondarock.it”;

Un “rapido ripasso” sulla figura del musicista statunitense, sul blog “Motel Wazoo”, nome peraltro “zappiano”;

Una recensione del libro di Giordano Montecchi, Frank Zappa – Rock come prassi compositiva, Arcana Edizioni, 2014;

Un post sulla fusione tra “colto” ed “extra-colto” nella musica di Zappa;

Diversi post interessanti sul blog “Appunti residui”

…e in particolare un post su Zappa compositore “serio”;

Un post su Cosmik Debris e sulla polemica, molto “zappiana”, contro i guru alla moda;

Un post che narra della “dissacrazione” dei Grammy Awards attuata nel 1967 da un allora quasi esordiente Zappa e dal suo gruppo;

Un post che contiene alcune suggestioni su Zappa come “personaggio”.

3 pensieri riguardo “Frank Zappa, ovvero: Ecco uno spirito di cui sentiamo la mancanza…

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