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Un post sul mio nuovo blog a proposito del mio libro

Annuncio che è uscito finalmente il mio ultimo volume di racconti, Ma i giardini si facevano aspettare (Youcanprint ed.). Ne parlo più dettagliatamente sul mio nuovo blog, “Il giardino che attende”, ora accessibile (pardon per la falsa partenza, ma adesso ci siamo davvero…).

Don’t lynch (please)!

Sul Web sembrano funzionare molto gli slogan telegrafici, che poi possono prendere la forma di “hashtag” e simili.

Io ne ho da proporre uno: Don’t lynch!, o eventualmente se preferite (fa “più Web”): #Dontlynch.

E’ un invito che rivolgerei in modo martellante a tutti coloro che sui social si esercitano a lanciare assortiti ostracismi ad personam o, più esplicitamente, “campagne d’odio”, come vengono chiamate.

Il problema secondo me è che definirle “campagne d’odio” è poco accurato; finisce per essere un eufemismo.

No, in molti casi si tratta proprio di linciaggi.

E il linciaggio è uno degli atti più incivili dei quali l’umanità possa macchiarsi. E’ una violenza di branco, rispetto alla quale la vittima designata non ha difese, perché è isolata, privata della possibilità di replicare in modo paritario: gli aggressori le urlano contro, tutti insieme, in coro, e sovrastano a priori ogni possibile parola differente, ogni possibile spiegazione.

Certo, talvolta i linciatori ritengono di avere buone ragioni per aggredire la loro “preda”; ma del resto nella storia del linciaggio è stato sempre così: si pensi a quando, negli anni bui in cui questa pratica aveva una certa diffusione in certe zone degli States americani, il branco dava la caccia (letteralmente) a presunti assassini. C’era una “colpa” da risarcire, e quindi un colpevole da punire…

Peccato che questa forma di (pseudo)giustizia non consenta di esaminare con obiettività i fatti – fase indispensabile affinché si arrivi a un credibile accertamento della verità – e che quindi nel linciaggio in definitiva sia il branco a decidere unilateralmente, senza porsi il minimo dubbio, chi sia colpevole e come debba essere punito. Il branco è quindi qui contemporaneamente legislatore, pubblico accusatore, giudice e anche boia… Potere assoluto, dunque, che presume infallibilità. La negazione di ogni civiltà, anche allo stato embrionale.

Dicevo, quindi, i “linciatori” quasi sempre partono dal presupposto di avere buone ragioni per aggredire la “preda”: ma questo non vuole dir nulla; a dispetto dei suoi adepti e praticanti, non è l’intenzione a rendere giustificabile un atto che resta incivile (come minimo).

Qualcuno dirà che oggi non ci sono più linciaggi.

Beh, quel qualcuno si sbaglia: ci sono, hanno soltanto cambiato forma; non pretendono più di condannare a morte il “reo”, ma lo fanno a pezzi moralmente, lo privano di qualsiasi diritto di replica, lo condannano a priori – e la condanna stessa è in questo caso anche esecuzione della pena.

Il veicolo prediletto per il linciaggio è oggi il Web, e strumento principale per attuarlo sono i social network, con la loro micidiale capacità di interazione in tempo reale e in pubblico.

Mi sembra che col tempo questa tendenza dei social si sia andata affinando e accentuando; leggere oggi una schermata – che so – di Facebook significa in molti casi vedere sfilare davanti agli occhi una sequela di azioni di linciaggio in atto, che si distinguono fra loro non tanto per il metodo, quanto per il loro obiettivo; gruppi distinti (anzi, “cordate” distinte) di utenti di Facebook (ma anche di altri social), insomma, si esercitano nel tiro al bersaglio contro il loro specifico bersaglio preferito.

Non vedo quasi mai argomentazioni centrate sull’uso della ragione, infatti, in queste “campagne”, ma la pura volontà di infierire tutti insieme, consci che questa azione, se compatta, può demolire la reputazione della vittima, svilirla, isolarla, darle insomma quel che una volta si definiva la morte civile, che non è cosa da poco (e che fa tremar le vene ai polsi).

Non so se qualcuno di coloro che partecipa, dalla sicura postazione del proprio PC o smartphone (o quello che sia), a questi attacchi, si ponga mai la domanda: “Oddio, ma cosa sto facendo?”

Possibile che nessuno se la faccia mai? Possibile che nessuno si chieda a quale meccanismo stia realmente contribuendo?

Bisognerebbe distinguere le campagne rivolte contro gruppi di potere, o contro il comportamento di Stati e di governi, dalle campagne che se la prendono con singole persone: nel primo caso, i poteri sono abbastanza in grado di rintuzzare gli attacchi, e quindi non c’è linciaggio, ma semmai una dialettica anche dura ma spesso legittima; nel secondo, invece, c’è la feroce ricerca di “capri espiatori”, con tutto ciò che questo comporta (altri prima di me hanno illustrato la questione del Capro Espiatorio con maestria e finezza di analisi).

Don’t lynch, please! Non effettuiamo condanne sommarie, per favore, e soprattutto non pretendiamo di concentrare in noi stessi innumerevoli ruoli, e quindi innumerevoli poteri – questa sovrabbondanza di funzioni rischia di accecarci. Sì, perché il linciaggio non è innocente, non è un atto innocuo, né estraneo all’idea di potere, giacché esso stesso è una forma di potere (tipicamente esercitato da una massa di persone), e come tale crea una pericolosa ebbrezza in chi lo pratica.

Col linciaggio mediatico oggi aggiriamo fin troppo facilmente i pilastri posti a difesa della civiltà del diritto moderno e trasformiamo (purtroppo) agevolmente un’accusa o persino un semplice sospetto in una condanna già emessa e da eseguire seduta stante. Abbiamo così la dittatura dei luoghi comuni, maneggiati da masse irrequiete; ma non è attraverso i luoghi comuni, i “sentito dire” e gli “umori diffusi” che si arriva ad accertare la verità.

Ecco, pretendiamo la verità, se c’è qualcosa che ci indigna, ma non linciamo singole persone, per favore. Perché il linciaggio non porta giustizia, anzi procura nuove e possibili ferite da cui scaturisce nuova ingiustizia.

***

(P.S.: l’attitudine al linciaggio, in essi fin troppo presente, è la ragione principale che rende piuttosto parco e cauto il mio uso dei social).

Il tempo è il mare più vasto

Il tempo è il mare più vasto,
sommerge coloro che non ce l’hanno fatta,
ne cancella le tracce terrene.
Sottrae alla memoria anche i nomi,
lascia che evaporino le immagini nitide dei volti
che credevamo di poter custodire
per condurle a una nebbia
in cui anche il più saldo
è spinto a dubitare.
Certo, ci rimane la fotografia,
il frammento di voce metallica,
ma nel turbine dei milioni
viene sospinto l’assente
e chi si dibatte ancor fiero nella vita
sovrasta chi vive solo nel ricordo d’altri.
Silenziosa lotta
che un vincitore indica
ancor prima che tu vi t’immerga.
L’oceano però ci lavora sempre ai fianchi
e la sua onda incalza
e ad ogni navigante toccherà un giorno esser naufrago.
Chi vuol mostrare pietà
– per contraddire nel suo ristretto spazio
con lieve forza di creatura
l’indifferenza dei flutti –
non dimentichi mai
chi per un’ora gli è stato compagno
e gli doni così ogni giorno un’altra ora in cui sopravviva,
più forte delle onde implacabili
di un presente avaro e ansioso di guardare avanti.
E qui leggi tu, se puoi, i nodi del crocevia:
“avanti” vien chiamata la zattera
che vende caro ogni minuto di gioia
perché pretende in pegno ciò che ricordi delle gioie andate.

Rosario Galatioto

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