Maestri da apprezzare: Roberto De Simone

«Avete letto mai Roberto De Simone?» [1] cantava anni fa Edoardo Bennato. Qualcuno sapeva chi fosse, qualcun altro non lo sapeva allora e forse non lo sa neanche adesso. Male, però…

Male, dicevo, perché Roberto De Simone è una figura importante della scena musicale italiana della seconda metà del XX secolo e oltre; compositore, arrangiatore, studioso delle tradizioni popolari (specialmente partenopee), autore e regista teatrale, autore e interprete di canzoni e molto altro ancora…

Tutto questo però non è stato sufficiente, nel nostro Paese, a farne una “stella di prima grandezza”, agli occhi dell’opinione pubblica “generalista”, e soprattutto delle istituzioni. Certo, De Simone è stato insignito del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, ha diretto teatri prestigiosi, ha avuto importanti riconoscimenti internazionali… ma con tutto ciò ha dovuto lamentarsi – con dignità – per far sapere la sua situazione di indigenza e mobilitare la stampa affinché gli si concedessero i benefici della “legge Bacchelli”.

L’ho saputo poco tempo fa e la notizia mi ha rattristato, perché per me De Simone non è e non può essere “uno qualsiasi”.

Qualcuno lo conosce come promotore e supervisore musicale dell’esperienza indimenticabile della Nuova Compagnia di Canto Popolare e come autore de La Gatta Cenerentola, opera teatrale in musica tratta da un racconto di Basile.

Queste due tappe del suo articolato percorso di artista dimostrano comunque la sua attenzione al pubblico di ogni strato sociale: pur avendo una formazione di compositore “colto”, De Simone non ha infatti scelto di imboccare la strada della musica accademica “sofisticata”, per così dire, o d’avanguardia, che rischia talora di rivolgersi a “quattro gatti” già preparati all’ascolto di opere programmaticamente “complicate” sotto il profilo del linguaggio musicale. [2]

Egli ha scelto una via che nel Novecento non è stata – almeno inizialmente – battuta da moltissimi, e che consiste nel tentativo di avvicinare la “sapienza” che deriva dagli studi accademici (storia della musica, armonia, composizione, contrappunto, ecc.) alla “strada”, ovvero al pubblico non necessariamente “colto” in fatto di musica; è una via diversa da quella scelta – che so? – da Schoenberg (con tutto il rispetto per il Maestro austriaco), ma simile invece a quella scelta – con mille diverse sfumature – da Gershwin, Kurt Weill, da Michel Legrand e Claude Bolling (capaci, questi ultimi due, di spaziare con stupefacente competenza e sensibilità dal jazz al barocco alla canzone) o anche dalla generazione dei cosiddetti “minimalisti” come Ph. Glass, Riley e, in senso inverso (ovvero risalendo dalla canzone o dal pop o dal rock verso i territori della “musica colta”), da F. Zappa, K. Emerson, J. Cale, L. Ferré o F. Battiato.

Nelle opere musicali di De Simone infatti avvertiamo la capacità di rispettare i codici della musica tradizionale, innestandovi elementi originali e moderni, il tutto senza dar mai l’impressione di volere stupire l’uditorio con momenti di voluta “oscurità”: egli insomma, a differenza di altri illustri colleghi, non ha mai ceduto alla tentazione di scrivere pezzi per il gusto di suscitare nell’uditorio il complesso del “Vestito nuovo dell’Imperatore” (quello che ci può portare a pensare: “In questo pezzo non ci capisco niente… ma magari proprio per questo dev’essere un capolavoro!”).

Alcuni dicono che il suo capolavoro (quanto all’attività di autore e compositore) sia rappresentato da La Gatta Cenerentola (1976); ma a mio avviso ci sono altre sue opere veramente degne di considerazione, come il Mistero napolitano (1977), la cantata Populorum progressio sul testo dell’omonima enciclica (1994), l’oratorio Eleonora, composto per il bicentenario della Repubblica Napoletana (1999), o il bellissimo Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini (1985).

Ma se queste sono alcune delle sue pagine più “alte”, non si deve a mio avviso dimenticare il grande lavoro compiuto da De Simone nel campo della riscoperta del patrimonio della musica popolare tradizionale del Sud Italia.

E poi, anche il De Simone “minore” nasconde perle insospettabili: parlo della sua attività nel campo del pop e della canzone.

Nel 1973 ad esempio partecipa, in qualità di arrangiatore-orchestratore, alla realizzazione del primo LP di Edoardo Bennato, “Non farti cadere le braccia”; tutti i brani di questo album in cui il suo lavoro è percepibile (per la presenza ad es. dell’orchestra “classica”) hanno un’impronta unica: si avverte insomma che De Simone non è un “arrangiatore di routine”, di quelli che si limitano ad “abbellire” il brano di sound orchestrale “quel tanto che basta”, ma un cesellatore di prim’ordine.

Il risultato migliore lo ottiene forse in Un giorno credi (canzone scritta da Bennato, per la parte musicale, e da Patrizio Trampetti, per il testo).

Qui De Simone, lavorando intensamente sull’arrangiamento orchestrale, non si limita a far sentire qua e là un “tappeto di archi”, o – che so? – un arpeggio di flauto, ma crea una vera e propria struttura sonora articolata, ricca di sfumature, che avvolge il pezzo dalla prima all’ultima nota e gli dà un’impronta “trompe-l’oreille“, per così dire, di sinfonismo/operismo settecentesco “reinventato” [3]; imbastisce inoltre un dialogo serrato (quasi un contrappunto) degli strumenti d’orchestra con la melodia principale (eseguita al canto da Bennato), che è un vero e proprio intarsio pregiato, traboccante di dettagli. Tra l’altro, trasforma Un giorno credi in un brano fuori del suo tempo (perché apparentemente prende in prestito l’eco di altri tempi) e proprio per questo gli dona un’aura tutta speciale, adatta forse anche al testo molto particolare del pezzo.

E’ uno di quei casi in cui l’arrangiamento orchestrale dialoga con la linea del canto a una tale “profondità” che, quando lo stesso brano viene eseguito con altri organici – ad esempio in versione voce-chitarra -, e quando quindi tutta la parte affidata all’orchestra viene “sottratta”, e rimane solo il “nudo scheletro” della composizione originale, il brano stesso diventa un’altra cosa, quasi irriconoscibile.

Potrò sbagliarmi, insomma, ma ritengo che l’arrangiamento orchestrale di Un giorno credi, firmato da De Simone, sia di per sé un lavoro pregevole, che potrebbe essere studiato nelle scuole di musica come esempio virtuoso nel suo genere – anche perché mi pare che arrangiamenti di questo tipo, nelle canzoni di ora, nessuno li tenti più.

Ognuno vuole stare ormai ben conficcato nel proprio tempo, con le sue mode e i suoi tic, e di conseguenza anche nei confini del proprio “sottogenere del pop” (qualunque esso sia), vivendo degli scampoli che il proprio tempo e il proprio “orto musicale” gli passano: al massimo qualcuno fa “campionamenti” o “remixaggi” di cose prese da altri “orti”, ma i “campionamenti” o i “remixaggi” essendo forme di “manipolazione tecnologica” non sono arrangiamenti, almeno non del genere di cui parliamo qui, che implica sapienza in forma e in fase di scrittura.

Tra l’altro, la “mania” dei remixaggi è stucchevole anche perché è un’opera di “forzata attualizzazione”, che presuppone in maniera presuntuosa che il brano di partenza non sia più “adatto ai tempi” (ma chi lo dice?); l’opera compiuta invece da De Simone nel caso di Un giorno credi va nella direzione inversa: antichizza un brano nuovissimo, e con ciò lo “detemporalizza” deliberatamente, gli toglie ogni connotato di riconoscibilità entro i codici effimeri delle mode musicali del pop. Implicitamente suggerisce con ciò che si possa tranqullamente ignorare l’ossessione dell’essere attuale a tutti i costi, e che anzi – visti i risultati raggiunti – proprio ignorandola si possa riuscire a realizzare qualcosa di valido.


Nel 1977, addirittura, De Simone pubblica un album di canzoni a proprio nome, dal titolo “Io Narciso io”: qui lui è “mattatore assoluto”, essendo interprete vocale principale e anche autore dei testi, delle musiche e delle orchestrazioni (la direzione dell’orchestra è affidata ad Antonio Sinagra).

Lo stile musicale dei brani mescola con gusto (e dunque senza alcuna forzatura) il progressive rock e un apparente “neo-barocco”, talora distinti o contrapposti, e talora invece sovrapposti.

Si tratta di canzoni, ma non è il “pop” a cui siamo abituati: nell’album si respira una sensazione di avanguardia e di straniamento che distingue quest’opera da quasi tutti gli album di canzoni pubblicati in quel periodo. E’ come una rappresentazione di teatro-canzone senza palcoscenico. Per quanto riguarda in particolare il brano Lo shimmy del mitomane, forse il più teatrale di tutti, un possibile paragone si può fare con certe canzoni del duo Brecht-Kurt Weill (sia per gli accenti provocatori del testo che per l’aria “ballabile” della musica e dell’arrangiamento).

La canzone della colpa e Il gioco del cavallo a dondolo sono deliziosi giochi musicali, che citano elementi colti e della tradizione popolare, e che al tempo stesso nel testo si confrontano con la canzone d’autore, riuscendo a non sfigurare affatto.

La strage degli innocenti sembra raccogliere silenziosamente la “sfida” lanciata anni prima dall’album di De Andrè “La buona novella”, e in parte il testo, in alcuni punti, sembra ricalcare quell’atmosfera (anche per affinità tematica); ma la musica e certe impennate di amara ironia del testo portano il brano in una direzione differente, non meno severa, ma al tempo stesso più “leggera” (in senso positivo: l’ironia amara e la colloquialità d’impronta teatrale sono un pregio in più di questa canzone).

Il brano più suggestivo è però probabilmente quello che dà il titolo all’album, Io Narciso io. Musicalmente è originalissimo, perché – mettendo a tacere (ancor più che in altri pezzi della raccolta) i canoni e i riferimenti familiari del “pop” – sembra affondare le radici in echi di antica tradizione, ove “colto” e popolare si fondono e si confondono; l’arrangiamento è un piccolo gioiello e contribuisce a suggerire sotterraneamente, in contrasto con l’apparente stile classico della musica, le radici contemporanee del pezzo. Il testo ha la forma di un monologo poetico (cantato quasi come davanti a un immaginario specchio: infatti la voce dell’autore si confronta qui con quella di un controtenore), monologo che accentua l’elemento di “teatralità” dell’album e che vuol essere “atemporale”, o meglio “detemporalizzato”, al pari della musica.

Nel brano strumentale Ricercare la fusione fra tradizione – inscritta nel ritmo del pezzo (quasi “bachiano”) e nella melodia – e linguaggio musicale moderno – evidente tanto nell’armonia quanto nella strumentazione, col dialogo tra flauto e sassofono – emerge con particolare efficacia.

L’album si conclude con Dies irae, un brano strumentale, che incastona in un ostinato in stile “progressive rock” (affidato a pianoforte e percussioni) la rilettura di un canto facente parte del repertorio gregoriano tradizionale, Victimae paschali laudes, affidato al sax.


Un ascolto attento meritano poi certamente – inutile dirlo – le opere “maggiori” di De Simone, ad esempio il Requiem in memoria di P.P. Pasolini (1985) per soli, complesso vocale, vocalisti, coro, voci bianche, complesso rock e orchestra; ci sono, in quest’opera in cui si alternano momenti ispirati alla vocalità classica e popolare e momenti influenzati dal jazz e dal progressive rock, diversi passaggi che si rivelano davvero ispirati e trascinanti. Uno fra tutti: il Libera me domine, che era stato utilizzato dall’autore già in una sua opera precedente (il Mistero napolitano), ma che nel Requiem assume un nitore e un’intensità particolari, di rara bellezza.

Si può spendere tranquillamente, per pezzi come questo, il termine “capolavoro”, senza tema di sbagliarsi o di esagerare. Quando la linea melodica principale, cantata in stile classico e severo, s’intreccia col coro popolaresco, il brano raggiunge livelli di tensione, emozione ed espressività davvero unici, sottraendosi al rischio dell’eclettismo, del pot-pourri e del collage fini a sé stessi e rivelando quindi l’estrema padronanza del materiale sonoro, che gli autentici maestri, come Roberto De Simone, possiedono.


Note:

[1] Il verso citato compare nella canzone Rinnegato (1973), scritta da Edoardo Bennato e da lui eseguita nell’album “Non farti cadere le braccia”. Il testo integrale della strofa è il seguente: «Avete letto mai Roberto De Simone? / Ha fatto un lungo viaggio nella tradizione / e dice che in Italia, col passar degli anni, / la musica peggiora e non si va più avanti». [Torna al testo]

[2] Non voglio con questo assolutamente sminuire l’importanza della musica contemporanea d’avanguardia. Vi sono numerose composizioni di musica atonale, microtonale, concreta, ecc., molto suggestive, accanto ad altre poco “convincenti”; ma lo stesso si può dire d’altronde della musica “tonale”, in tutte le sue forme. I problemi in effetti, con l’avanguardia musicale, in genere sorgono quando essa diventa un paravento utile a schermare la mancanza di ispirazione di questo o quell’autore, perché – in questi casi – appellandosi al diritto di “sperimentare” e di “sovvertire il linguaggio” non si è tanto interessati a conquistare l’ascoltatore, specie quello neofita, ma ci si vuole piuttosto mettere preventivamente al riparo da qualsiasi possibile contestazione: l’ascoltatore critico, in questo “gioco”, diventa a priori “l’asino che non capisce”; ma non è detto che tale ritratto sia sempre onesto e veritiero… [Torna al testo]

[3] Non è forse esagerato dire che qui De Simone – con la sua grande cultura musicale – ha tentato, ovviamente su scala più ridotta (trattandosi “soltanto” di una canzone), la stessa impresa di reinvenzione di stilemi del passato, compiuta ad es. da Stravinskij con il suo Pulcinella e da Prokof’ev con la sua Sinfonia classica. [Torna al testo]

2 pensieri riguardo “Maestri da apprezzare: Roberto De Simone

  1. Il conformismo imperante negli arrangiamenti e anche nella costruzione delle canzoni rende simili molte delle nuove produzioni. Tempo fa funzionavi se eri “diverso” sia nella costruzione dei pezzi sia nell’arrangiamento degli stessi ( vedi ad esempio il lavoro di Morricone come arrangiatore negli anni 60), oggi si è creata l’illusione che una cosa funzioni se rispetta i canoni imperanti della moda del genere che va al momento. Il risultato , spesso, è che tutto suona uguale, quattro accordi ripetuti ad libitum e via. E la musica entra da un orecchio e esce dall’altro lasciando solamente qualche piccola emozione superficiale.

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    1. Condivido parola per parola quello che hai scritto, compreso il riferimento all’esperienza di Morricone come arrangiatore. “Tutto suona uguale”, proprio così: la musica pop, o comunque “mainstream” (anche certo “rock”…), è oggi più che mai scuola di conformismo stilistico – e dire che in passato non è stato sempre così, ci sono stati molti tentativi di affrancarsi con intelligenza e creatività dalla “moda del momento”. Oggi – per dare l’impressione di non sguazzare nella palude immobile – basta far finta con gesti esteriori di essere “trasgressivi”, con qualche parola o provocazione buttate qua e là, ma anche quello ormai non è altro che uno stanco rito, dunque pienamente in linea con il conformismo delle forme musicali. “Quattro accordi ripetuti ad libitum”, proprio vero… “E la musica entra da un orecchio e esce dall’altro”, è destinata programmaticamente ad essere un oggetto di consumo “usa e getta”, senza lasciare un’impressione duratura.

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