Ma è proprio così, prof. Pasquino? (A proposito del non-voto…)

«Chi non vota danneggia la politica e i suoi concittadini elettori» scrive Gianfranco Pasquino, in un recente articolo pubblicato sul suo blog.

Quando ho iniziato a leggere il titolo, per la verità, mi veniva spontaneo, dopo «Chi non vota danneggia…», un altro séguito, tratto da antichi ricordi: «Chi non vota danneggia anche te: digli di smettere!»

E in effetti il succo dell’esortazione di Pasquino è un po’ questo.
Vediamo per ordine il ragionamento dell’illustre politologo.

Inizia con una rassicurazione – questa:

«La crescita dell’astensionismo, cioè del numero degli elettori che, per una varietà di motivi, non si recano alle urne, non è una “emergenza democratica”. Nessuna democrazia è mai “crollata” per astensionismo.»

Deduco dalle sue argomentazioni che la seconda affermazione dovrebbe – a suo giudizio – costituire il fondamento della prima; ovvero, dal momento che «Nessuna democrazia è mai “crollata” per astensionismo», ne consegue che «La crescita dell’astensionismo, cioè del numero degli elettori che, per una varietà di motivi, non si recano alle urne, non è una “emergenza democratica”».

Ma chi l’ha detto che un’emergenza democratica si può avere solo e soltanto in presenza di un sistema politico che crolla?

I nostri sistemi politici vanno avanti sempre più per forza d’inerzia, per così dire, ovvero per mancanza di alternative. Non “crollano” (quasi) mai, tecnicamente.

Per la complessità dei nostri apparati economici, amministrativi, ministeriali, parlamentari, ecc., non si crea mai un vuoto di potere tale da provocare una crisi letteralmente paragonabile ad una “catastrofe”.

Ma questo basta a sostenere che l’astensionismo non segnala di per sé un malessere grave in una democrazia? A mio parere no; le democrazie nelle quali l’interesse dei cittadini per il voto cala vertiginosamente – lo riconosce in parte lo stesso Pasquino, poi, contraddittoriamente – finiscono per somigliare a “gusci vuoti”, in cui della democrazia resta la “facciata”, ma l’anima va via.

Ritengo che in questi ultimi anni stiamo assistendo, specie in Paesi come l’Italia, a un’involuzione del sistema politico, che va assumendo di fatto (al di là appunto della facciata, dell’apparenza, delle stesse leggi) sempre più i caratteri di un regime di notabili, terribilmente simile a quello vigente nell’era del liberalismo precedente all’introduzione del suffragio universale [1].

Lo stesso imperversare di “governi (di) tecnici” ne è una prova. I parlamentari fanno un passo indietro, si riconoscono quasi “indegni” di esercitare il loro ruolo e lasciano spazio a “notabili titolati”, i quali vengono presentati all’opinione pubblica (da stampa, esperti, ecc.) come gli unici in grado di “prendere il timone” della nave in un “momento difficile”. Peccato che i nostri momenti, ultimamente, siano sempre presentati come “difficili”… Come se la politica non comportasse sempre, sistematicamente, in ogni epoca la difficoltà di conciliare esigenze diverse e di affrontare contemporaneamente molteplici sfide contrastanti, complesse e spesso impreviste. E allora? Forse per questo dobbiamo lasciare spazio e campo libero ai “notabili titolati”?

Vi è poi un ulteriore tentativo di rassicurazione di Pasquino, che suona così: non dovremmo preoccuparci dell’astensionismo, perché il pericolo peggiore sarebbe quello opposto, ovvero quello dell’eventuale “iper-partecipazione” dei cittadini.

Secondo Pasquino, insomma, non solo l’astensionismo – anche con alte cifre – non è un dramma, ma è anche un segnale – entro certi limiti – positivo, perché

«[…] un’impennata di partecipazione elettorale con milioni di elettori che seguano adoranti un demagogo che ne ha catturato l’immaginazione e ne vuole il sostegno elettorale, è spesso produttiva di conseguenze destabilizzanti. America latina e Filippine ne sono una prova».

Ma siamo sicuri che l’unica alternativa possibile all’astensionismo, sotto il profilo logico e politico, sia un’alta partecipazione dei cittadini alle urne dovuta alla mobilitazione da parte di seguaci “adoranti/acritici” di demagoghi?

Non si dovrebbero invece ipotizzare una serie di alternative “intermedie”, meno catastrofiche (e anche, a mio parere, più probabili, alle nostre latitudini)?

(Peraltro, nel seguito del discorso, si comprende che Pasquino ovviamente non ignora che ci sono altre possibilità “intermedie”: e allora perché enfatizzare questo contrasto? Per suggerire: meglio meno partecipazione che troppa? Ma messa così, sembra una riproposizione delle ossessioni di Huntington – quello del rapporto sulla Crisi della democrazia -, trasformate però in una specie di slogan o addirittura di gag).

Forse i cittadini stanno perdendo l’abitudine, il gusto di votare, hanno smarrito il senso di questo atto, perché si stanno accorgendo che i loro eletti, una volta eletti appunto, abdicano al loro ruolo – almeno qui in Italia – e lo consegnano ipso facto ai “tecnici” di turno. Sarebbe forse il momento di cominciare a dirlo, a parlarne, a riflettere intorno a questa tendenza, anziché continuare a sostenere che “Tutto va bene, Madama la Marchesa”, visto che comunque “le democrazie non crollano” (!)

Non crollano, ma diventano qualcos’altro: d’altra parte, c’è il “vezzo”, da parte di molti studiosi, di definire “democrazie” anche i regimi liberali che non prevedevano il suffragio universale; certo, così tutto si tiene: se chiamiamo “democrazia” anche quella in cui i cittadini comuni (sebbene formalmente liberi di votare) smettono di sentirsi rappresentati (poiché comunque se il loro voto si pone in contrasto espresso col totem There is no alternative, imposto da vari esperti “autorevoli”, viene ignorato/congelato) e di conseguenza rinunciano a votare, allora possiamo dire che la democrazia non sta “crollando”; ma si tratta di un trucchetto retorico-terminologico, che non salva lo “spirito” della democrazia, ma forse soltanto lo status quo (e, certo, il ruolo autoreferenziale dei “notabili”, dei vari “consiglieri del principe” – che coi notabili vanno molto d’accordo – eccetera).

Certo, Pasquino qualche ragione a chi si astiene la dà: riconosce che partiti che non funzionano adeguatamente e non si rivelano all’altezza del loro ruolo creano disaffezione e sfiducia nell’elettorato.

Ma subito dopo aver riconosciuto questo, aggiunge:

«Sarebbe, però, sbagliato pensare che gli elettori stessi non portino una buona dose di responsabilità per il loro astensionismo».

Per quale motivo? Secondo il politologo, essenzialmente perché

«Chi non si interessa di politica, non s’informa e non partecipa alle elezioni automaticamente avvantaggia i votanti e non può poi lamentarsi e gli eletti non si curano dei suoi interessi, delle sue necessità, delle sue preoccupazioni. Non votando, gli astensionisti non trasmettono le loro richieste né a chi ha vinto le elezioni e le cariche né a chi va a formare l’opposizione e avrebbe grande vantaggio dall’ottenere informazioni e sostegno, a futura memoria, dagli astensionisti.»

Dunque, se capiamo bene, 1) chi non vota lo fa perché “non si è informato”; 2) se non ci si reca a votare e non si partecipa alle elezioni, si avvantaggia chi vota e per questo motivo non si ha poi il diritto di lamentarsi se gli eletti non si curano degli interessi e delle richieste dei “non-votanti”; 3) non votando, non si trasmettono informazioni preziose ai governanti, che così non possono avere realmente “il polso” della situazione, non possono sapere cosa davvero vogliono i cittadini.

Quanto all’argomento n. 1, non credo sia necessariamente vero che chi non vota “non si è informato” e dunque si è disinteressato della politica e del suo andamento: a mio avviso, in vari casi invece chi non vota lo fa proprio perché si è informato e ha tratto la conclusione di non potersi fidare dei vari candidati in lizza, forse anche perché dopo non saranno loro a governare, ma si faranno da parte “per il bene del Paese” e il trionfo di un qualche “tecnico-salvatore-della-patria”.

Insomma, se ormai prevale il motto (pare thatcheriano) There is no alternative / Non c’è alternativa, molti cittadini comprensibilmente non vedono a cosa mai potrebbe/dovrebbe servire la loro partecipazione alle urne, se i loro voti, anche se numerosi e perciò numericamente “pesanti” – quando vorrebbero con questi esprimere un’alternativa reale a ciò che i “notabili/tecnici/tecnocrati” ritengono “essenziale/imprescindibile/insindacabile” (ecc.) e contrastare perciò con forza l’ammonimento-spauracchio There is no alternative di cui sopra – vengono bellamente ignorati, con varie tecniche e pretesti (il governo di emergenza o dei tecnici è appunto una di queste “tecniche”).

Dovremmo cominciare a riflettere sul fatto che questa è forse una forma di astensionismo provocato, indotto dalle élite tecnocratiche, o perlomeno da esse accolto con favore (senza troppi clamori), giacché va in direzione dei loro “sforzi”, e magari è per questo che a livello ufficiale nessuno si interroga seriamente su quanto male questo astensionismo faccia al rapporto fra cittadini e istituzioni e quindi alla fiducia che dovremmo nutrire nella democrazia.

Non è che forse nel mondo attuale delle “democrazie avanzate” (e la nostra è in questo un laboratorio privilegiato) siamo tornati a sottrarre diritti a una parte dei votanti, senza ricorrere ad antiquati divieti formali (senza cioè sottrarre formalmente i diritti politici), ma semplicemente facendo in modo che certe richieste (per quanto forti e pressanti) dell’elettorato, se non gradite all’establishment economico-finanziario, siano considerate come non esistenti? — Mi si dirà: “Ma no, che vai dicendo?”, ma credo che la domanda vada posta seriamente —

Quanto all’argomento n. 2, certamente è vero che chi non vota rende ancor più “pesanti” i voti espressi dagli altri cittadini; ma il diritto di criticare l’operato di chi governa non si perde mai, in una democrazia: chi potrebbe infatti censurare critiche che potrebbero comunque avere un fondamento di verità? Non dobbiamo cadere nella trappola dell’argumentum ad hominem, espresso in questa forma: poiché la critica è espressa da chi non ha votato, non va tenuta in considerazione, anche a prescindere dalla sua validità intrinseca e dal suo contenuto di verità. Si è teste pensanti anche quando non ci si reca alle urne – fino a prova contraria…

Circa l’argomento n. 3… quanto pesano davvero i “sentimenti” di chi vota? Non mi risulta che negli ultimi anni i partiti ne abbiano tenuto conto in maniera piena e concreta. Abbiamo assistito a disinvolti “cambi di programma”, da parte di esponenti di vari partiti, che hanno sconcertato gli elettori: e questi disinvolti gesti di deliberato “oblio” intorno agli impegni presi con l’elettorato hanno probabilmente contribuito pesantemente ad accrescere la sfiducia dei cittadini, e dunque la loro propensione ad astenersi – dal post di Pasquino si evince peraltro che lo studioso lo riconosce.

D’altra parte, l’argomento n. 3 è strettamente legato al n. 1: i cittadini che sanno di non ricevere ascolto presso i partiti e le istituzioni, rinunciano a rivolgersi agli uni e spesso anche alle altre.

Il sogno proibito della tecnocrazia consiste nell’idea che i cittadini debbano tutti volere la stessa cosa e dividersi soltanto sugli argomenti sui quali l’establishment eventualmente decide che ci si possa dividere senza pericolo per gli “interessi che contano”.

Ma in tal modo, una fetta sempre più grande della società (quella che non lascia ad altri il compito di stabilire che cosa si possa e che cosa non si possa sostenere, pensare e chiedere) rischia di non essere rappresentata – ma non “per sua colpa”, come l’analisi di Pasquino tenderebbe a suggerirci.

Il punto è che nessuno può essere sicuro che sotto la crosta del silenzio, della rinuncia e della rassegnazione, che sembrano emergere dall’astensionismo, non si inneschino processi di dissaffezione sempre più forti, che possono portare non al “crollo” ma al logoramento, all’inaridimento e allo snaturamento delle forme della vita politica collettiva.

Forse la “tecnocrazia trionfante” sta ottenendo il suo giocattolo politico preferito, anche grazie al montante astensionismo e all’inconsistenza dei partiti, ma non è detto che questo porti un’era di pace, benessere, soddisfazione.

Non penso, in definitiva, che questa analisi (che non credo campata in aria) ci fornisca elementi tali da consentirci di “stare sereni”, nonostante il moderato ottimismo sfoggiato da Pasquino.

E allora, tornando alla battuta iniziale, possiamo in coscienza ammonire o predicare: «Chi non vota danneggia anche te: digli di smettere»?

Non ne sarei tanto sicuro: forse coloro che non votano, o almeno alcuni di loro, sono – politicamente parlando – “sismografi viventi”, particolarmente sensibili alle scosse che deteriorano il sistema sociale e politico, e si rendono conto che esse – a differenza dei terremoti veri e propri – non sono “eventi naturali”, ineluttabili, ma sono provocate a volte dalle stesse forze che dovrebbero affrontarle e contrastarle (non necessariamente in modo attivo, ma anche per inerzia, rinuncia, scarse capacità politiche, inadeguatezza al ruolo, ecc.).


Note:

[1] Con questa differenza (giudichi il lettore se grande o piccola): oggi i “notabili” si presentano sempre più nella veste di “esperti/tecnici/tecnocrati”; la barriera, che un tempo separava in modo spiccio e brutale i ricchi/istruiti dai poveri/analfabeti, oggi si chiama ufficialmente “competenza” (o qualifica, o persino “scienza”), ma nonostante tale nome mite, “accattivante” e “ragionevole”, essa non funziona per far sì che chi sa aiuti o si ponga al servizio di chi non sa, bensì per escludere del tutto dalle decisioni e dalla partecipazione politica (in modo subdolo e strisciante oppure palese) chi si presume che “non sappia” o “non sia all’altezza”. [Torna al testo]

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